Nel Cimitero di Sant'Antioco, c’è un piccolo monumento in pietra con la foto del Canonico Raffaele Ciampelli; questi si è reso protagonista di una vicenda tutta Antiochense. Questa ricostruzione storica è stata realizzata grazie ai documenti lasciati dal compianto Mons. Tore Armeni.
Il testo è stato pubblicato tempo fa su Facebook, lo ho copiato ma non ho salvato il none dell'autore. Mi scuso con lui e mi riprometto di citare la fonte se qualcuno vorrà comunicarmela.
Pomeriggio di Fuoco a Sant’Antioco
Molti vestivano "s'esti peddi", una grande pelliccia formata da quattro pelli di pecora, che abitualmente viene indossata, ancora oggi, dai pastori durante le nottate di inverno quando vegliano il gregge, isolati sui pascoli. Altri indossavano un nero cappotto lungo fino alle calcagne aperto dietro fino alla altezza della vita per lasciare liberi i movimenti quando si sale a cavallo.
Molti vestivano "s'esti peddi", una grande pelliccia formata da quattro pelli di pecora, che abitualmente viene indossata, ancora oggi, dai pastori durante le nottate di inverno quando vegliano il gregge, isolati sui pascoli. Altri indossavano un nero cappotto lungo fino alle calcagne aperto dietro fino alla altezza della vita per lasciare liberi i movimenti quando si sale a cavallo.
Dopo i cavalieri, l'interminabile sfilata dei costumi femminili nella sognante bellezza di mille fantasmagorici colori .Il sacrista maggiore "Su Scolanu mannu", Antioco Serpi, noto "Ziu Giardinu", conscio del suo grande ruolo, con la grande croce astile d'argento, apriva la breve sfilata dei chierichetti che teneva composti ed ordinati, con occhiate torve e minacciose .Seguiva il simulacro attorniato dagli "obbreris" con in mano ceri giganti, simbolo della loro importanza. Incedevano gravi e maestosi, come senatori romani, e nella loro posa quasi sacerdotale non mancava una leggera nota di commedia. Tutti assieme intonavano i versetti dei "Coggius", il canto popolare che, in lingua sarda, narra vita, virtù e martirio del Santo. E quelle voci tentavano di imitare un complesso orchestrale con tutta la potenza della loro ugola, petto a mantice, bocca spalancata fino alle orecchie, vene del collo turgide, faccia congestionata per lo sforzo di superarsi a vicenda. Tutto il popolo seguiva il canto. E le urla devote raggiungevano il cielo!
Dietro il simulacro il canonico parroco Raffaele Ciampelli con i vice parroci in terno rosso - fuoco: il sindaco Luisiccu Biggio con gran fascia tricolore e tutta una marea di popolo che cantava e pregava. Tutto procedeva regolarmente fino a "Sa Ruga ‘e Su’ Conti" - via Cavour; nulla lasciava prevedere una conclusione tanto tempestosa. I buoi, i cavalli, i costumi erano ben avviati, lungo la via Cavour ed avrebbero deviato per "Sa Ruga ‘e Sa Presonedda" - via XX Settembre.
Ma improvvisamente il parroco Ciampelli, forse per un improvviso malessere, interpretato come un capriccio, ordinò che il simulacro deviasse per via Gialeto, abbreviando così il tradizionale itinerario.
Cessarono i canti e le preghiere e quel popolo orante e devoto si scatenò, come una furia. Un coro di urla frenetiche e minacciose di protesta si levò contro il parroco Ciampelli che rischiava di essere linciato.
Dalla vicina via Nuoro, "Sa Ruga de Is Buttegheddas", dove ogni casa era una bettola, uscirono a decine gli uomini che passavano il pomeriggio alternando la partita a carte con abbondanti libagioni. Via Gialeto fu bloccata. "Ziu Giardinu" il sacrista, premuto da ogni parte, pensò opportuno smontare il grande Crocifisso d'argento dall’asta e brandendola come una clava, minacciava i più scalmanati.
Cessarono i canti e le preghiere e quel popolo orante e devoto si scatenò, come una furia. Un coro di urla frenetiche e minacciose di protesta si levò contro il parroco Ciampelli che rischiava di essere linciato.
Dalla vicina via Nuoro, "Sa Ruga de Is Buttegheddas", dove ogni casa era una bettola, uscirono a decine gli uomini che passavano il pomeriggio alternando la partita a carte con abbondanti libagioni. Via Gialeto fu bloccata. "Ziu Giardinu" il sacrista, premuto da ogni parte, pensò opportuno smontare il grande Crocifisso d'argento dall’asta e brandendola come una clava, minacciava i più scalmanati.
Fu evitato il peggio per l’ intervento dei carabinieri, comandati dal maresciallo Secci. Mentre le lunga teoria degli animali e dei costumi aveva seguito il percorso abituale, il simulacro col clero fece dietro-front verso la parrocchia. Ondeggiando paurosamente sulla portantina a stento rientrò in Chiesa che, nel frattempo, si era riempita di donne spaurite e piangenti. Sul sagrato intanto era scoppiata una spaventosa rissa tra i pochi sostenitori del parroco ed una folla che urlava: "Repubblica!!!". Volavano schiaffi e pugni e ben presto la baruffa fu generale. Il cancello laterale, di ferro venne subito chiuso, mentre il portale grande della chiesa veniva stazionato dai carabinieri. E’ a questo punto che entra in scena una figura di primo piano della sommossa. Vincenzo C., noto col nomignolo di “Babbu C.”, barcollante per il vino che aveva tracannato senza misura, volle mettersi al comando della moltitudine imbestialita. Tentò di arringare la folla, ma si sentì soltanto un urlo che avrebbe dovuto attirare l'attenzione dei presenti chissà per quale discorso dettato dai fumi di Bacco. "Populu locu..." aveva iniziato, ma un suo figliastro, Giuseppe A., lo sollevò di peso, gli mise una mano in bocca per impedirgli di continuare e riuscì a portarlo via, non ostante le sue riluttanze, in casa di una cugina, Maria Teresa M. Venne vergognosamente legato alla scala di accesso al solaio. Ma "Babbu C." non voleva fare la fine ingloriosa di un capo trasportato lontano dal campo di battaglia. Rimasto solo in casa, tanto fece che riuscì a slegarsi, raggiunse la piazza superò misteriosamente lo sbarramento dei carabinieri e coinvolse nella sua violenza, Giovanni F., lo sposino che, esasperato, ricercava spasmodicamente la sposa, smarrita in tutto quel trambusto.
"Babbu C.", entrato in chiesa terrorizzò tutte le donne che vi si erano rifugiate, urlando come un energumeno: "Populu locu! Su Santu est su nostu! Foras su Santu!", pretendendo che il simulacro venisse riportato fuori per la processione! Giovanni F. scambiato per uno dei facinorosi, venne afferrati e portato via, mentre la sposina, esterrefatta vinta da quella terribile emozione, cadeva pesantemente al suolo, priva di sensi.
"Babbu C." invece, vista la mala parata, approfittando di tutto quel disordine, riuscì a guadagnare il cortile adiacente alla chiesa e scomparve. In chiesa le donne strillavano ed urlavano, senza ritegno. Alcune spruzzavano abbondantemente di acqua di colonia il volto di Peppina F., nel tentativo di farla rinvenire.
Sulla piazza la folla inferocita non intendeva a calmarsi. Un gruppetto di uomini, imitando il gesto sacrilego di certo Sebastiano P., noto "Ghiacciu mannu", armatisi di vanghe e di pale lanciavano nel tempio, attraverso il cancello laterale di ferro, terra sassi, aumentando la disperazione ed il terrore. A questo punto Emanuele G., "Ziu Lieri mannu", confidando in un improvviso intervento miracoloso del Santo, salì sul presbiterio, ed afferrato l'abito del simulacro, scongiurava, piangendo: "Sant'Antiogu fai su meraculu, fai meraculu!!!". I cavalli bardati, intanto, imbizzarriti per quel bailame disarcionarono molti cavalieri, trascinando in una fuga pazza verso Calasetta e Monte Cresia anche i cavalli dei venditori di merce, che stazionavano in via Castello .Costretti ad inseguire le loro bestie abbandonarono i tavoli di vendite, che vennero rovesciati, seminando ovunque merce d'ogni genere: mestoli, taglieri, pale da forno, cucchiaioni di legno, teglie, tridenti, forconi, zappe, vanghe, campanacci, calderoni e bracieri di rame, cucchiai, coltelli, rasoi a serramanico, temperini madreperlati, tabacchiere d'osso. All’altro lato della piazza: noci, noccioline e dolciumi sardi, torroni, "pastiglias de mongia" "mustacciolus","pardulas", "candelaus", "gueffus", "pabassinas nuoresas", "pirichittus de Pirri", "ciambellas", "croccantinus", "pistoncus de crobi".
La piazza divenne uno strano campo di battaglia con tutto quel bottino che le dava l’aspetto di un grande palco, pronto per una tragicommedia. Per i bambini fu una provvidenza insperata, un miracolo del Santo Patrono! Si precipitarono su quella preda sparsa per terra da una fata benefica, e con la bocca piena e le tasche piene d’ogni ben di Dio, iniziarono un concerto fuori programma battendo con mestoli e cucchiaioni di legno sui calderoni, sui bracieri di rame e mugolavano e nitrivano, imitando i versi dei buoi e dei cavalli.
Gli adulti invece continuavano la vergognosa canea contro i tutori dell'ordine che, circondati, stavano cedendo a quella violenza brutale. Lo stesso maresciallo ne uscì malmenato, un carabiniere ebbe una costola fratturata, un altro si vide arrivare un calcio feroce. Temendo di essere sopraffatti pensarono di ricorrere alle armi. Si sentì uno sparo. E quel colpo di pistola ottenne l’effetto desiderato. Vi fu un fuggi fuggi generale. Solo un gruppetto in cui si distinguevano "Dragu", "Bassinettu", "Bagaliu", "Ghiacciu Mannu", "Menesiu", "Picciurrettu", "Unga di oru" ed altri voleva tener duro, ma le emozioni violente di quel giorno, l'atteggiamento deciso dei carabinieri, stavano smorzando le loro velleità bellicose e fiaccando le ultime energie. Sui loro volti era dipinta una stanchezza triste. Nei loro sguardi smarriti si intravedevano evidenti i segni della preoccupazione, del pentimento e della resipiscienza. Abbandonarono il campo lentamente e sulla piazza gravò un silenzio quasi solenne. Calavano intanto le prime ombre della sera su quel pomeriggio di fuoco! Le donne richiamate da quella insperata quiete, a gruppetti e con molta cautela si affacciavano alla porta del tempio e di corsa si avviavano alle loro case. "Ziu Giardinu" poté finalmente sprangare il portone centrale e per una porta laterale, corse a casa e vi si rinchiuse a doppia mandata. Il simulacro del Santo era rimasto solo, nella chiesa vuota! Le poche candele dimenticate accese davano gli ultimi sprazzi di luce fumosa e sgocciolavano abbondante mente sulle predelline ricolme di cera. A notte avanzata si mise in moto la macchina della giustizia. I responsabili erano stati tutti individuati e non si volle attendere l’indomani. Sedici furono prelevati dai loro letti e seguirono ammanettati i carabinieri.
Mancava all’appello l’eroe della giornata, che non fu trovato in casa. Solo a notte fonda, in una perquisizione più accurata, una luna piena impertinente, l’aveva scoperto tra il folto fogliame di un fico, nel cortile di casa. E come primo atto di sottomissione alla forza pubblica, volle consegnare "il corpo del reato". Era un temperino di pochi centimetri, con un bel manichino variopinto di madreperla, che aveva raccattato in piazza durante i disordini, e che, al massimo, poteva servire come tempera-lapis. Avviati a Cagliari qualche tempo dopo, lungo la strada incrociarono la "tracca" della Madonna di Tratalias che era incamminata al paesetto per la processione tradizionale. E quegli uomini ridiventati bambini, rivolsero, con invocazioni di pianto alla Madonna perché volesse intervenire per farli tornare, al più presto, alle loro famiglie. Avrebbero scontato sette mesi di pena, a Buon Cammino, condannati dal Tribunale di Cagliari, che anticipò la loro uscita per la festa del 13 Novembre. Tornarono per quel giorno in cui si festeggiava il "dies natalis" del Martire. E sciolsero un voto maturato in quei lunghi mesi di prigionia. I diciassette, alla Messa "grande", comunti, emozionati, con gli occhi rossi di pianto, vollero accostarsi alla comunione. Dopo la messa circondarono il simulacro del S. Patrono e vollero cantare, da soli, i "Coggius". "De Sa Cresia Santa honori!..." incominciò con la sua bella voce baritonale, Manuelicu T., noto "Dragu", "Terrori de su paganu"... seguirono gli altri, con un coro ibrido e grottesco rotto ogni tanto da singhiozzi di commozione.
"Babbu C." invece, vista la mala parata, approfittando di tutto quel disordine, riuscì a guadagnare il cortile adiacente alla chiesa e scomparve. In chiesa le donne strillavano ed urlavano, senza ritegno. Alcune spruzzavano abbondantemente di acqua di colonia il volto di Peppina F., nel tentativo di farla rinvenire.
Sulla piazza la folla inferocita non intendeva a calmarsi. Un gruppetto di uomini, imitando il gesto sacrilego di certo Sebastiano P., noto "Ghiacciu mannu", armatisi di vanghe e di pale lanciavano nel tempio, attraverso il cancello laterale di ferro, terra sassi, aumentando la disperazione ed il terrore. A questo punto Emanuele G., "Ziu Lieri mannu", confidando in un improvviso intervento miracoloso del Santo, salì sul presbiterio, ed afferrato l'abito del simulacro, scongiurava, piangendo: "Sant'Antiogu fai su meraculu, fai meraculu!!!". I cavalli bardati, intanto, imbizzarriti per quel bailame disarcionarono molti cavalieri, trascinando in una fuga pazza verso Calasetta e Monte Cresia anche i cavalli dei venditori di merce, che stazionavano in via Castello .Costretti ad inseguire le loro bestie abbandonarono i tavoli di vendite, che vennero rovesciati, seminando ovunque merce d'ogni genere: mestoli, taglieri, pale da forno, cucchiaioni di legno, teglie, tridenti, forconi, zappe, vanghe, campanacci, calderoni e bracieri di rame, cucchiai, coltelli, rasoi a serramanico, temperini madreperlati, tabacchiere d'osso. All’altro lato della piazza: noci, noccioline e dolciumi sardi, torroni, "pastiglias de mongia" "mustacciolus","pardulas", "candelaus", "gueffus", "pabassinas nuoresas", "pirichittus de Pirri", "ciambellas", "croccantinus", "pistoncus de crobi".
La piazza divenne uno strano campo di battaglia con tutto quel bottino che le dava l’aspetto di un grande palco, pronto per una tragicommedia. Per i bambini fu una provvidenza insperata, un miracolo del Santo Patrono! Si precipitarono su quella preda sparsa per terra da una fata benefica, e con la bocca piena e le tasche piene d’ogni ben di Dio, iniziarono un concerto fuori programma battendo con mestoli e cucchiaioni di legno sui calderoni, sui bracieri di rame e mugolavano e nitrivano, imitando i versi dei buoi e dei cavalli.
Gli adulti invece continuavano la vergognosa canea contro i tutori dell'ordine che, circondati, stavano cedendo a quella violenza brutale. Lo stesso maresciallo ne uscì malmenato, un carabiniere ebbe una costola fratturata, un altro si vide arrivare un calcio feroce. Temendo di essere sopraffatti pensarono di ricorrere alle armi. Si sentì uno sparo. E quel colpo di pistola ottenne l’effetto desiderato. Vi fu un fuggi fuggi generale. Solo un gruppetto in cui si distinguevano "Dragu", "Bassinettu", "Bagaliu", "Ghiacciu Mannu", "Menesiu", "Picciurrettu", "Unga di oru" ed altri voleva tener duro, ma le emozioni violente di quel giorno, l'atteggiamento deciso dei carabinieri, stavano smorzando le loro velleità bellicose e fiaccando le ultime energie. Sui loro volti era dipinta una stanchezza triste. Nei loro sguardi smarriti si intravedevano evidenti i segni della preoccupazione, del pentimento e della resipiscienza. Abbandonarono il campo lentamente e sulla piazza gravò un silenzio quasi solenne. Calavano intanto le prime ombre della sera su quel pomeriggio di fuoco! Le donne richiamate da quella insperata quiete, a gruppetti e con molta cautela si affacciavano alla porta del tempio e di corsa si avviavano alle loro case. "Ziu Giardinu" poté finalmente sprangare il portone centrale e per una porta laterale, corse a casa e vi si rinchiuse a doppia mandata. Il simulacro del Santo era rimasto solo, nella chiesa vuota! Le poche candele dimenticate accese davano gli ultimi sprazzi di luce fumosa e sgocciolavano abbondante mente sulle predelline ricolme di cera. A notte avanzata si mise in moto la macchina della giustizia. I responsabili erano stati tutti individuati e non si volle attendere l’indomani. Sedici furono prelevati dai loro letti e seguirono ammanettati i carabinieri.
Mancava all’appello l’eroe della giornata, che non fu trovato in casa. Solo a notte fonda, in una perquisizione più accurata, una luna piena impertinente, l’aveva scoperto tra il folto fogliame di un fico, nel cortile di casa. E come primo atto di sottomissione alla forza pubblica, volle consegnare "il corpo del reato". Era un temperino di pochi centimetri, con un bel manichino variopinto di madreperla, che aveva raccattato in piazza durante i disordini, e che, al massimo, poteva servire come tempera-lapis. Avviati a Cagliari qualche tempo dopo, lungo la strada incrociarono la "tracca" della Madonna di Tratalias che era incamminata al paesetto per la processione tradizionale. E quegli uomini ridiventati bambini, rivolsero, con invocazioni di pianto alla Madonna perché volesse intervenire per farli tornare, al più presto, alle loro famiglie. Avrebbero scontato sette mesi di pena, a Buon Cammino, condannati dal Tribunale di Cagliari, che anticipò la loro uscita per la festa del 13 Novembre. Tornarono per quel giorno in cui si festeggiava il "dies natalis" del Martire. E sciolsero un voto maturato in quei lunghi mesi di prigionia. I diciassette, alla Messa "grande", comunti, emozionati, con gli occhi rossi di pianto, vollero accostarsi alla comunione. Dopo la messa circondarono il simulacro del S. Patrono e vollero cantare, da soli, i "Coggius". "De Sa Cresia Santa honori!..." incominciò con la sua bella voce baritonale, Manuelicu T., noto "Dragu", "Terrori de su paganu"... seguirono gli altri, con un coro ibrido e grottesco rotto ogni tanto da singhiozzi di commozione.
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